giovedì 2 febbraio 2017

ELEZIONI PERMANENTI: SE ROMA FINISCE COME LA SPAGNA


Il tripolarismo e la frammentazione hanno tenuto per dieci mesi Madrid senza governo. Nel frattempo l’economia è esplosa. Modello giusto per l’Italia?
Spaghetti in salsa spagnola? Magari è un disegno che qualche leader coltiva. E non è detto che non si ritrovi in sintonia con un significativo nugolo di industriali, visto che laddove è accaduto è andata bene. Ma è anche vero che quel sogno che taluni agognano, per altri è un incubo. Per dieci mesi, infatti, Madrid è rimasta senza governo. Spaghetti in salsa spagnola? Magari è un disegno che qualche leader, nel fondo del suo animo, coltiva. E non è detto che non si ritrovi in sintonia con un significativo nugolo di industriali, visto che laddove è accaduto è andata bene. Ma è anche vero che quel sogno che taluni agognano, per altri è nient’altro che un incubo. Che succede se l’Italia finisce nel ginepraio di tipo spagnolo? Per dieci mesi, infatti, Madrid è rimasta senza governo. Il passaggio da un sistema bipolare ad uno tripolare ( ricorda niente?) e la nascita di nuovi soggetti politici – a sinistra Podemos; nell’area di centrodestra Ciudadanos – ha portato ad una frammentazione tale da non consentire alcuna maggioranza. Risultato: elezioni nel dicembre 2015. E nuove elezioni sei mesi dopo, a giugno. Niente in entrambi i casi. Solo la spaccatura dei socialisti ha consentito dopo dieci mesi col fiato sospeso, la formazione di un governo di minoranza guidato dal centristaconservatore Mariano Rajoy. Il fatto è che di questa desertificazione governativa, economicamente il Paese non ha sofferto: al contrario. Nel 2015 il Pil è crescito del 3,2 per cento, sommandosi al + 1,4 per cento dell’anno precedente: niente male. L’occupazione è aumentata, i consumi privati sono esplosi con un incremento del 3,6 per cento. What else?
La politica non serve, anzi intralcia. E’ vero? Mettiamola così. Il piano inclinato verso le urne c’era e rimane. La deriva per elezioni anticipate – sbocco che unisce in una paradossale alleanza Matteo Renzi e Beppe Grillo – ha una inerzia che è difficile da contrastare. Ci provano in molti, anche con qualche




argomento pesante. Il più rappresentativo è il capo dello Stato che il suo pensiero l’ha fatto conoscere con chiarezza seppur nelle forme felpate che gli appartengono: all’indomani della sentenza della Corte Costituzionale, per il Colle è fondamentale che i sistemi elettorali di Camera e Senato vengano armonizzati, e solo dopo si potrà andare a votare.
Per tutta risposta, Grillo gli ha inviato una lettera con una sorta di aut- aut: o il Parlamento adotta il meccanismo che piace ai Cinquestelle, il cosiddetto Legalicum; oppure non resta che il voto con le regole della Corte: e tanti saluti alle “difformità”. Renzi, necessariamente, adotta toni e dispiega considerazioni meno brutali: ci sarà il tentativo di intavolare un dialogo con le altre forze politiche con la speranza che l’accordo arrivi praticamente come la manna dal cielo. Ma se non sarà così, la road map è la stessa dell’ex comico: urne prestissimo ( a giugno o addirittura ad aprile) e chi s’è visto s’è visto.
Però il nodo politico resta. Perchè c’è poco da fare: con i distonici paletti piazzati dalla Consulta e tenendo conto dei sondaggi, è sicuro che nessuna combinazione riesca ad ottenere la maggioranza dei seggi. Nè l’alleanza ( di chi?) con i Cinquestelle; nè le larghe ( o forse strette?) intese Pd- FI Ncd. Nè governi di centrodestra e neppure di centrosinistra. Idem per esecutivi di tipo tecnico. Di fatto dalle cabine elettorali fuoriuscirebbe un Parlamento ingovernabile. Chi è che può permettersi di vagheggiare un simile risultato? I fan del modello spagnolo certamente. Nel Pd non ce ne sono, e honi soit qui mal y pense. Però è sicuro che c’è chi, penna alla mano, ha già tratteggiato il percorso di qui a marzo: la Direzione del Nazareno dichiara impossibile un’intesa sulla legge elettorale e formalmente chiede le elezioni. Il premier Paolo Gentiloni sale al Quirinale per rassegnare le dimissioni. Se Mattarella chiede comunque un passaggio parlamentare, il presidente del Consiglio va sì in aula ma per chiedere la sfiducia e costringere allo scioglimento.
Fantapolitica. O forse vaticinio di quel che accadrà. Il risultato vero è uno solo: che se accade quel che tutte le rilevazioni sondaggistiche preconizzano, dopo le urne non c’è maggioranza possibile. A quel punto, magari dopo qualche traccheggiamento e un girotondo di incarichi finiti nel nulla, non resterebbe che tornare a votare. Ma, attenzione, sempre con il medesimo, distonico, meccanismo elettorale visto che sarebbe davvero impossibile in quel marasma politico tirare il filo di un accordo. Dunque nuove elezioni, forse a dicembre 2017, e nuova ingovernabilità. E così via. Fino a quando, non si sa. Magari chi ha tirato già dallo scaffale le avventure di Don Quijote, potrebbe riflettere sul fatto che la soluzione del risiko spagnolo è arrivata dal tracollo del Psoe e la fiammata di crescita economica è stata dovuta alla concessioni di aiuti fino a 100 miliardi di euro da parte della Ue: mossa che ha favorito le critiche di chi ha sostenuto che la Spagna ha ceduto all’Europa la propria sovranità. Finanziaria, naturalmente: quella politica le agenzie di rating l’hanno declassata da tempo.



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